Quaglia Universal Market

di Muriel Pavoni

L’attraversavano una ferrovia dismessa e una superstrada superaffollata. I suoi abitanti erano come scolpiti sulle panchine della grande piazza-parcheggio, cuore pulsante della città di Quaglia.
Da qualsiasi luogo si partisse la strada era un tragitto interminabile, forse un espediente per preparare lo stato d’animo dell’avventore, affinché potesse, fin dai primi momenti, assaporare quel senso di desolazione che lo avrebbe colto alle porte del paese. Ci sono teorie, udite al bar di Adolfo dopo il terzo grappino, in cui si narra che a Quaglia ci si arrivasse non per vie ufficiali, ma sotto l’effetto di droghe pesanti, e che la strada non fosse altro che una lunga, monotona, allucinazione…
E siccome l’ironia è una dote rara, che a volte cresce nel deserto, la Las Vegas della Valboccia, la chiamavano, per via di una curiosa similitudine tra le due città, entrambe poste al centro di uno sconfinato nulla.

Il soprannome fu coniato da un cittadino che in gioventù intraprese un viaggio organizzato in America. Dal suo spaesamento nacquero acrobatici parallelismi tra il nuovo mondo e Quaglia. Ma, al posto del deserto, tutt’intorno al paese c’era un ampio patchwork di poderi e orticelli che in ogni stagione, tra fitti banchi di nebbia, che sprigionava un intenso bouquet di fertilizzanti di origine squisitamente chimica.
La caserma dei carabinieri, un ufficio postale, due bar concorrenti, una trattoria con due coperti, il panettiere, una tabaccheria/mini-market/bigiotteria, la chiesa, il campetto, questo si narra fosse il magro inventario di Quaglia.
In compenso, sull’onda della speculazione edilizia, nei primi anni ’90, si aprì un enorme cantiere alla “periferia” della città che avrebbe generato un colossale condominio in stile “Unité d’Habitation”. Alle volte i figli dei quagliesi andavano a studiare all’estero e ahimè diventavano architetti.
Di cinema, teatri, musei, degenerazioni in voga nei capoluoghi di provincia, neanche a parlarne! Certe perversioni non hanno mai toccato i cittadini di Quaglia.
Le attività predilette dai quagliesi erano le chiacchiere in piazza. Purtroppo, data la monotonia del paese e la mancanza d’immaginazione dei suoi abitanti, si era sempre a corto di argomenti. Sovrano tra tutti svettava il torneo di biliardo, seguito a ruota dalle litigate dei frequentatori del bar; ma, a volte, tra due amici in vena di confidenze, si sentiva parlare del Tropical…

Negli anni Ottanta, su iniziativa di un audace imprenditore di nome Jerry, la vecchia autofficina sulla superstrada fu adibita, alla bell’e meglio, a discopub. La metamorfosi si realizzò tappezzando le pareti del capannone di poster dalle vedute caraibiche: ecco fatto il “Tropical club”, locale da ballo riservato agli amanti delle emozioni forti. Il Tropical, in sostanza, divenne un night per vecchi bavosi. Non di rado, entrando nel locale, capitava di venire adescati da sguardi guerci e sorrisi ornati da una bella peluria, erano professioniste a buon mercato quelle che offriva Jerry, ma non mancavano certo di estimatori.
Il Tropical club rimase sulla breccia un paio d’anni, con il benestare della popolazione maschile, che non escludeva il parroco e un buon numero di uomini sposati. Arrivarono presto le denunce e furono molte. Tante da farlo chiudere. La felicità di alcuni induce all’invidia e, si sa, a volte la giustizia, ma soprattutto le mogli tradite, non tiene conto dei bisogni dell’uomo.
Per evitare nuovi fastidi, il comune votò un provvedimento, tutt’ora in vigore, che impediva di aprire locali e qualsiasi forma di intrattenimento in città e in tutta la pianura circostante. Il provvedimento aveva una postilla che vietava di rinnovare o ammodernare locali già esistenti, per sicurezza.
Queste ultime iniziative contribuirono, definitivamente, a conferire al paese un aspetto fuori dal tempo. Passeggiando tra le due vie principali, da cui partivano reticolati perlopiù residenziali, si aveva l’impressione di vagabondare in un plastico. Le strade: sempre deserte. Il bar proponeva il liquore strega come ultima novità. Le abitazioni, unità mono famigliari con cortiletto munito di magnolia e nani da giardino, erano tutte delle stesse dimensioni e alla medesima distanza, anche il colore, un’intensa sfumatura di giallo che andava dal canarino all’ocra, le accomunava.
Come il cane finisce per assomigliare al padrone, o viceversa, così le città finiscono per assomigliare ai loro abitanti. Il fatto è che non si sa se sia stato per via dell’humus, la nebbia, l’aria salmastra a influenzare i quagliesi. Oppure il loro carattere spigoloso, gretto, indolente a dare alla città quell’aria stantia. Non c’è dubbio che i quagliesi, essendo spilorci, senza altri svaghi oltre alla tirchieria stessa, gente che attribuiva al denaro proprietà sovrannaturali, l’unica qualità che avevano fosse un vago talento per il business.
A volte basta un fiuto ben allenato e spirito d’osservazione per intuire, entrati in un luogo sconosciuto, la natura dei suoi abitanti. Così come Jerry non aveva voluto tener conto che il danno arrecato al paese poteva avere un prezzo che avrebbe assicurato alla sua attività vita eterna; altri, forestieri, ci arrivarono subito a capire che quel buco di anime morte, attraversato dalla superstrada e dalla ferrovia, poteva essere una miniera d’oro.
La proposta non tardò a venire. Fu il Cav. Per. Ind. Baiocchi, a intravedere l’affare. Il Baiocchi aveva fatto una fortuna con i supermercati Universal Market. Riciclando denaro non proprio pulito, aveva fondato la più grossa catena di centri commerciali. La sua formula innovativa si basava sul concetto di universo dello shopping. I suoi centri commerciali erano comunità autosufficienti fondate sul consumismo, con tutto il necessario per vivere senza uscire dai confini stessi: appartamenti, asili, scuole, negozi di ogni genere, ristoranti, bar, palestre. Questi centri avevano l’aspetto di anfiteatri futuristi, costituiti da varie unità confinanti, collegate tra di loro da viottoli e piazze ornate da fontane e giardini. Tutto rigorosamente artificiale.
L’idea era di fare piazza pulita del paese e sostituirlo con uno Universal Market, o meglio Quaglia Universal Market. L’imprenditore propose di fare una piccola modifica al nome della città per renderlo più accattivante. Il tutto si sarebbe svolto senza arrecare fastidi alla cittadinanza, che nel nuovo complesso avrebbe trovato nuovi, confortevoli, appartamenti e tutto il necessario per vivere.
Il cavaliere presentò il progetto al comune, corredato da una bella mazzetta. I pareri furono tutti favorevoli. Bastò aggiungere una nuova postilla al provvedimento con cui avevano fatto chiudere il Tropical, in modo da escludere dalle restrizioni i centri commerciali e, in particolare, gli Universal market.
Non fu difficile convincere i quagliesi. Si organizzò un meeting in cui furono illustrati, attraverso slides, tutti i vantaggi del nuovo progetto. Ci sarebbero stati: lavoro per tutti e luoghi sicuri per i giochi dei bambini, i quali avrebbero ricevuto la migliore educazione nelle Universal schools, fino ad arrivare al Universal campus, specializzato in marketing.
In fretta e furia l’accordo fu preso, giusto il tempo di far sloggiare la cittadinanza, che avrebbe soggiornato in un Resort alle Canarie durante i lavori del cantiere.
Via alle ruspe, decine di camion trasportarono i resti della città verso la superstrada. In poco tempo sul selciato si fece un enorme spianata di cemento, sulla quale venne eretto, a forza di prefabbricati, il Quaglia Universal market. In ultimo venne affissa l’insegna luminescente all’ingresso e i cartelli colorati sulla superstrada e alla stazione, con scritto: “Benvenuti”, in tutte le lingue. L’unico edificio che resistette all’urto delle ruspe fu l’“Unité d’Habitation”, già in perfetto stile Universal: cubico, enorme, spersonalizzante, divenne l’albergo per ospitare i fanatici del turismo commerciale.
Presto i quagliesi tornarono alla normalità. Come formiche si insediarono nei loculi del residence, farcirono gli armadi di vestiti e le dispense di provviste, pronti il mattino seguente, a prendere servizio nei vari negozi della loro nuova città-mercato.
Nel riassetto organizzativo furono previsti premi produzione e Jerry, grazie alle sue doti imprenditoriali, fu promosso Marketing Manager. Con il budget fornitogli dal Baiocchi, sguinzagliò giovani donne, che avevano il compito di vestirsi appena il minimo indispensabile, tra le corsie del centro commerciale. Si dimostrò una certa generosità con le vecchie dipendenti del Tropical, che furono impiegate come guardiane ai gabinetti. In certi giorni in cui la fila si faceva lunga, le guardiane stesse raccontavano la storia della loro, personalissima, Atlantide. E a tutti coloro che credevano fosse una leggenda, dicevano invece che è esistita, ma non è stata sommersa dalle acque, bensì demolita dalle ruspe.

 

Di Muriel

Nata a Imola, dove forse (spero il più tardi possibile) morirò. Ho una laurea in storia dell'arte ma lavoro nel settore della formazione. Mi piace scrivere e leggere. Ho pubblicato La discarica degli acrobati sbadati (Giraldi 2011), Veduta di pianura con dame (Edizioni La meridiana 2015), Fermata al tramonto con cimitero (Augh! 2017); ho partecipato al romanzo collettivo Il libro delle vergini imprudenti (Navarra 2014); alcuni miei racconti sono apparsi in antologie e riviste, ho scritto due testi per il teatro. Ho un interesse speciale per le autrici e le loro personagge. Di recente ho scoperto di essere sia bibliomane sia bibliofila, abbinata che mi inserisce nel novero delle accumulatrici disordinate di libri e letture. Certe volte m’incuriosisce talmente tanto un’autrice che tendo a immedesimarmi nella sua storia tanto da volerla raccontare. Sarebbe difficile vivere senza le cose belle e inutili che (per me) sono: la letteratura, il cinema, il teatro e le arti visive. Con questo sito vorrei mettere ordine.