Una fotografa e nient’altro

Il manuale di storia della fotografia Beaumont Newhall (edizione 1984, un po’ datata, ma un vero classico) dedica a Eduard Weston circa cinque pagine tra parte critico-biografica e tavole fotografiche, addirittura viene citato il figlio Brett (come naturale erede artistico) col quale inizia a fotografare in Messico. Dalla vicenda umana e artistica di Weston, tenuto conto della citazione del figlio Brett, si esclude completamente il sodalizio artistico e affettivo con Tina Modotti che non viene nemmeno menzionata come sua compagna di vita. Eppure a fotografare, in Messico e non solo, erano tre.

L’opera di Weston, attingendo alla tradizione pittorica, è connotata dalla ripresa di corpi e vegetali nel dettaglio, fino a sembrare maestosi paesaggi. La sua è una fotografia quasi neoplastica, formalista fino all’astrattismo, ha una connotazione molto precisa che volendo può rappresentare un unicum nel suo genere, ma resta comunque marginale l’apporto di Weston nel più ampio panorama della storia della fotografia, mentre invece lo slancio di Tina Modotti, che pure pratica il suo apprendistato presso di lui e si sviluppa in pochissimi anni, appare oggi molto più originale nella combinazione tra simmetria e reportage, nella capacità di armonizzare forma e contenuto Tina Modotti ci parla ancora oggi; mentre Weston risulta un po’ sorpassato e il suo messaggio più debole. Inconcepibile il motivo per cui ai due non sia riservato, per lo meno, lo stesso spazio nella storiografia ufficiale.

La bella mostra monografica allestita a Palazzo Roverella (Rovigo), Tina Modotti, l’opera, ha il potere magico di proiettarci nella poetica di Modotti e lo fa indugiando pochissimo sulla vita, ma invece concentrandosi molto sull’opera, come suggerisce il titolo.

Per troppo tempo Modotti è stata descritta come personalità inquieta, dalla vita burrascosa, mai come fotografa di talento. In questo senso non fa eccezione la mostra di Rovigo che parte da Modotti modella, diva del cinema muto, moglie di Robo (il pittore Roubaix de l’Abrie Richey), ritratta da Weston in alcuni scatti affascinanti. Ma ben presto si fa strada l’artista che cerca di uscire dal ruolo di musa per diventare creatrice. Appena entra nella società artistica californiana di inizio secolo, inizia a domandarsi come contribuire ai movimenti di avanguardia che si stanno formando. Inizia sfruttando il suo talento di sarta ideando abiti stravaganti per Robo, che da parte sua la ritrae, poi grazie all’incontro con Weston e al loro viaggio in Messico s’interessa al mondo della fotografia, la sua prima macchina è una vecchia Korona, poi passerà a una Graflex (la stessa del maestro).

C’è da dire che in quegli anni, i primi anni ’20 nel novecento, la fotografia è una tecnica relativamente giovane. Le fotografe quindi non devono scavalcare muri insormontabili come quelli della pittura o della letteratura, è più facile che in altri campi provare a farne un mestiere. Tina, anzi Tinissima come la chiamava affettuosamente la madre, sembra seriamente intenzionata a provarci. S’immerge assieme a Weston nella vita rivoluzionaria del paese, conoscono e frequentano Diego Rivera, Xavier Guerrero, Frida Kahlo, abbracciano il movimento rivoluzionario. In questi anni Tina subisce una trasformazione, se inizialmente nel suo apprendistato fotografico ricalca la lezione di Weston (ne sono testimonianza le fotografie che ritraggono le calle dalle consistenze rugose, i bicchieri, i fili della luce che disegnano geometrie in cielo), pian piano sviluppa la sua personale poetica; pur lasciando intatta la dimensione geometrica, perviene a risultati originali grazie al suo gusto per la sperimentazione. Tina, anche nei suoi soggetti più formali, racconta un tormento, un’urgenza espressiva che è estranea al maestro. Si trasforma pure fisicamente, indossa abiti comodi per muoversi liberamente, abbandona il trucco, si pettina i capelli raccolti sulla nuca, non è una pettinatura alla moda, ma è la sua pettinatura.

Quello che considero il fulcro dell’opera (e della mostra) è il reportage sulle donne dell’istmo di Tehuantepec che restituisce un universo matriarcale fatto di donne/divinità, che dominano il paesaggio con il loro sguardo fiero e il loro incedere ieratico; si mostrano e si scherniscono, sono al centro di tutto, popolano un mondo al femminile dove gli uomini sono assenti e dove le donne, sebbene ritratte al lavoro, mantengono una compostezza tipica della statuaria classica, degli idoli votivi. Questo reportage arriva in seguito a un incarico ottenuto assieme a Weston per documentare l’etnografia messicana, dove i risultati di Modotti, che riesce a entrare nei luoghi sacri e a dialogare con le persone, sono nettamente più intimi e suggestivi degli scatti del compagno.

Ma è la politica a farsi strada, sempre più insistentemente, nella sua vita, fino a sottomettere l’arte alla causa rivoluzionaria.

Registra assiduamente la miseria, esaltando la rabbia, l’ingiustizia, la desolazione, l’insensatezza del lavoro e l’importanza della protesta organizzata. Il suo occhio tende sempre più all’oggettività e sono le persone a diventare il suo soggetto preferito, assieme alle mani, espressione del duro lavoro dei proletari.

È lei stessa ad affermare, in occasione della sua prima mostra personale:

“Ogni volta che si usano le parole arte a artista in relazione ai miei lavori fotografici, avverto una sgradevole sensazione dovuta al cattivo impegno che si fa di questi termini. Mi considero una fotografa e nient’altro. Se le mie fotografie si differenziano da quelle generalmente prodotte si deve al fatto che io cerco di realizzare non dell’arte ma soltanto delle buone fotografie, senza ricorrere a manipolazioni o artefizi di sorta. Mentre la maggior parte dei fotografi continua a cercare effetti artistici o imita gli strumenti che appartengono all’espressione grafica. Da ciò ne risulta un prodotto ibrido, che non distingue l’opera nella caratteristica più significativa che le compete: la qualità fotografica”.

La sua scelta di indipendenza la porta ad allontanarsi sempre di più dalla California in favore del Messico; la relazione con Weston finisce, ma resteranno sempre in contatto. Diventa la “fotografa ufficiale” dei muralisti messicani come Orozco e Rivera, quest’ultimo la ritrarrà nuda effige della Terra Vergine presso la Scuola dell’Agricoltura a Chapingo e impegnata nella distribuzione delle armi, in un murales, presso il ministero dell’educazione a città del Messico.

Il suo impegno culmina con l’iscrizione al partito comunista e con la collaborazione con El Machete (storica testata espressione di artisti e scrittori rivoluzionari e organo ufficiale del partito), per cui realizza, tra le tante, l’immagine (costruita) del giovane che legge e dei contadini, anch’essi immersi nella lettura del quotidiano, immagini con intento pedagogico, che descrivono una classe operaia colta e consapevole, dove la cura compositiva e la passione si fondono. La scelta estetica è quella di socializzare la creatività e distruggere l’individualismo borghese, perché la sua fotografia, ora più che mai, diventa ideologia, asserzione soggettiva; alle volte il messaggio può apparire naif ma è coerente con la spontaneità del popolo messicano, che sa raccontare come nessun altro, prendendo coraggiosamente le distanze dal pittorialismo dei colleghi uomini.

In quegli anni Tina realizza anche moltissimi ritratti, fotografie di artisti, attori, intellettuali che le garantiscono qualche necessario guadagno e, seppure queste opere siano realizzate al solo scopo di sostentarsi, non perde la grazia dello sguardo e l’acume dell’occhio: delicato con i deboli e spietato coi forti; come nei confronti dell’amica e critica Anita Brenner, con cui ha un rapporto ambivalente, che ritrae di profilo accentuandone il naso aquilino, o dal basso sottolineandone le gambe gonfie.

La sua prima personale viene inaugurata il 3 dicembre 1929 presso la Biblioteca Nazionale di Città del Messico, l’allestimento di Palazzo Roverella comprende circa 30 delle 50 opere esposte, scatti che rappresentano il suo manifesto artistico, un universo che oscilla tra geometria formale e passione politica: due mondi apparentemente inconciliabili che qui convergono. Nella foto per la stampa Tina viene ripresa di fronte all’allestimento, ma copre volutamente una foto: quella di Antonio Mella che era stato suo compagno per un brevissimo periodo, assassinato con due colpi di pistola all’uscita della redazione di El Machete. La foto lo ritrae da morto, lei sembra volerlo coprire per pudore, mentre in cima all’allestimento svetta un suo bel profilo in vita, come se fosse il nume tutelare della sua intera opera.

Nel 1930, quando oramai la militanza di Tina è conclamata, viene ingiustamente accusata di aver partecipato all’attentato al presidente del Messico, fugge quindi in Germania. A Berlino svolge il meticoloso lavoro di archivista per la propaganda del partito comunista e intraprende frequenti viaggi in Polonia, Ungheria, Romania per il pronto soccorso. Questo lavoro ripetitivo e soffocante ha il potere di annichilire la sua vena creativa.

Si trasferirà poi a Parigi e in Spagna per partecipare alla guerra civile, in questi anni il suo compagno è Vittorio Vidali, un agente del comunismo internazionale con una sfilza di nomi inventati e altrettanti passaporti.

Sono gli anni in cui abbandonerà definitivamente la fotografia. Il lavoro della militante non si sposa con la libertà creativa e il passaggio alla Leica, necessario per la praticità e i continui spostamenti, non sarà felice per l’arte di Tina, i pochi scatti caratterizzati da un lieve slancio grottesco, sono lontani dalla forza di quelli messicani.

Muore in un taxi, in una notte di inizio gennaio del ’42, di ritorno da una cena, le cause restano sconosciute, si parla di un attacco cardiaco. Non viene svolta alcuna autopsia, ma per le delicate condizioni politiche dell’epoca, Tina Modotti è soltanto un personaggio scomodo da eliminare.

Muore a 45 anni, ancora giovane ma invecchiata anzitempo. Tina, in pochissimi anni di attività, dal ’23 al ’30, sviluppa un linguaggio eclettico e complesso, composto da immagini nitide e precise, da cui emerge  un’apparente semplicità compositiva capace di veicolare un messaggio diretto e appassionato giocato sull’ellissi e non sull’accumulo. Tina Modotti, è evidente scorrendo le opere esposte, ha segnato la storia della fotografia in maniera molto più profonda di molti suoi  colleghi maschi: uno su tutti il compagno e maestro Edward Weston.

Di Muriel

Nata a Imola, dove forse (spero il più tardi possibile) morirò. Ho una laurea in storia dell'arte ma lavoro nel settore della formazione. Mi piace scrivere e leggere. Ho pubblicato La discarica degli acrobati sbadati (Giraldi 2011), Veduta di pianura con dame (Edizioni La meridiana 2015), Fermata al tramonto con cimitero (Augh! 2017); ho partecipato al romanzo collettivo Il libro delle vergini imprudenti (Navarra 2014); alcuni miei racconti sono apparsi in antologie e riviste, ho scritto due testi per il teatro. Ho un interesse speciale per le autrici e le loro personagge. Di recente ho scoperto di essere sia bibliomane sia bibliofila, abbinata che mi inserisce nel novero delle accumulatrici disordinate di libri e letture. Certe volte m’incuriosisce talmente tanto un’autrice che tendo a immedesimarmi nella sua storia tanto da volerla raccontare. Sarebbe difficile vivere senza le cose belle e inutili che (per me) sono: la letteratura, il cinema, il teatro e le arti visive. Con questo sito vorrei mettere ordine.