Se fosse Grazia...
“Io invece sono in due persone. Una è Grazia Deledda che si è educata da sé, che vive con la testa fra le nuvole azzurre e che è gentile con tutti coloro che si contentano di conoscerla superficialmente. L’altra è Grazietta, piccola, caparbia e selvaggia come tutti i suoi parenti, che fa tutto a modo suo che soprattutto non soffre più l’ironia quando si parla delle sue passioni.”
Se fosse il personaggio femminile di uno dei suoi romanzi, Graziedda sarebbe Nina, giovane sposa in viaggio di nozze, infarcita di ideali romantici, ne “Il paese del vento”. Dopo l’incipit, quasi stucchevole, accade un fatto che scatena nella protagonista un senso di repulsione per il marito e per la loro casa di villeggiatura: “effetto del vento erano lo scompiglio e il mormorio ostile coi quali ci accolsero i salici e i pioppi intorno alla casetta, che vi si rifugiava in mezzo grigia, chiusa; e mi parve, anche essa, inospitale e quasi arcigna.”
Nina incontra Gabriele, un amore di gioventù, in cui alcuni riconoscono Stanis Manca, amore non ricambiato di una giovanissima Deledda. Lui, malato di tisi e oramai in fin di vita, mette in crisi il matrimonio. Da qui Il romanzo procede tumultuoso sotto i cieli stellati e gli arenili della bella e ventosa Cervia. Ecco svelata la meta del viaggio di nozze: Cervia che in queste pagine diventa ambientazione letteraria, e assume i connotati di un luogo peccaminoso e sensuale.
“il sole tutto nostro, il cielo, il mare e la terra creati solo per noi: coppie di farfalle d’oro venivano dalla brughiera e ci seguivano come attirate da un comune effluvio d’amore.”
Così si susseguono immagini vibranti di una terra che, come in tutta l’opera narrativa “deleddiana”, partecipa dei tormenti dei suoi abitanti.
Nel 1919 Grazia, quella giudiziosa, scrive all’amico “principiante” Marino Moretti:
“Vorrei conoscere l’Adriatico, vorrei una casa da quelle parti”. Un anno dopo riesce ad abbandonare l’affollata Viareggio per stabilire le sue lunghe vacanze estive – da giugno a settembre – nella ridente Cervia.
Era stato un collega di Palmiro, suo marito, a descriverle per la prima volta la città, sempre lui aveva consigliato alla scrittrice di appoggiarsi a Lina Sacchetti, maestra cervese.
Ai nostri occhi, inquinati dalle spiagge caraibiche della Sardegna, riesce difficile immaginare che la scelta di una sarda, in materia di vacanze, possa orientarsi sulla Romagna. Ma oggi per ritrovare quella Cervia, ultima tra tutte a organizzarsi come stazione balneare, bisogna lavorare di fantasia:
“La spiaggia è in pendio, con una sabbia finissima e mobile, che il vento ammucchia in vere dune. Bisogna parecchio faticare per raggiungere la striscia solida lambita dalle onde chiare come acqua di fiume. Eccoci, tra mare e terra; fiorito di vele rosse il primo, l’altra di croco e ranuncoli. Dopo la zona dorata dell’arenile, si vedevano spesso gruppi di alberi, quasi tutti pioppi e platani, e in mezzo a essi piccole graziose ville con finestre chiuse. Nella spiaggia si notavano solo le impronte di piccole zampe di uccelli che pareva fossero scesi a bagnarsi al mare, ogni tanto io mi piegavo a raccogliere qualche conchiglia che pareva un fiorellino pietrificato.”
La sarda per raggiungere la Romagna impiega dodici ore di treno e tre cambi. Vive a Roma oramai da vent’anni e una vacanza in Sardegna le pare inconcepibile. Tant’è vero che del suo luogo d’origine lascerà testimonianze desolate di terre aride chiuse tra i monti, impestate dalla grettezza delle persone: piccoli proprietari terrieri, pastori, servi, braccianti, banditi che si danno alla macchia in seguito a disastri economici e delitti d’onore.
George Perec catalogava gli elementi del paesaggio, nel tentativo di far sopravvivere qualcosa che è destinato a mutare. I luoghi cambiano, lo sapeva Grazia, lo sanno bene gli scrittori che, a volte, scrivono per strappare qualche briciola al vuoto.
A questo punto sgombriamo lo sguardo dalle file di ombrelloni, togliamo i pedalò, dimentichiamo i racchettoni, le motonavi, ripopoliamo qualche ettaro di pini marittimi e scopriamo la bella e ventosa Cervia del 1920, il paese di Bengodi con la sabbia dorata e gentile, l’acqua trasparente, la vegetazione che arriva fino all’arenile, i pioppi, i salici, la pineta dantesca, le barche con le vele rattoppate, schierate lungo il molo, i pescatori scalzi che riempiono le ceste di sogliole, cefali, triglie e gamberi, ceste luccicanti, messe all’asta in mezzo a una calca di uomini e donne che si slanciano in punta di piedi per adocchiare il pezzo migliore. Così appare Cervia al maestro in pensione nel romanzo “Fuga in Egitto”. Rimane subito colpito dalla stazione col tetto rosso e dal fascino esotico del viale erboso slanciato verso la città. A lui, che viene dalla Sardegna, balena l’idea di essere approdato in un luogo selvaggio. Nota l’immobilità delle vigne, i cespugli, le file di pioppi, il mare in lontananza e un cielo chiaro “di una tristezza indicibile”.
E poi il centro cittadino:
“una piccola piazza selciata di sassolini di spiaggia, con a destra la chiesa e a sinistra il palazzo nero del comune, nel mezzo una fontana senz’acqua e sopra un quadrato di cielo simmetrico e intenso come un soffitto turchino.”
E ancora il mare:
“la spiaggia era completamente deserta… verso la palizzata del molo che appariva come un ponte tra la terra e il mare… a destra dove la linea delle sabbie finisce in uno svaporare azzurro che pare che si perda nella lontana montagna all’orizzonte… una dopo l’altra furono schierate lungo il molo con le vele fiammeggianti… come tatuate di mille rattoppi.”
Se fosse il personaggio maschile di uno dei suoi romanzi, Grazia, la più botanica degli scrittori, la prima donna italiana ad avventurarsi nelle montagne sarde con una guida del Touring, chissà quale sarebbe, di certo nessuno di quelli fragili e irrisolti nascosti tra le pagine suoi romanzi. La piccola sarda, pallida, bruna, un po’ spagnola, un po’ araba, un po’ latina, la donna che riesce a rimanere seduta immobile, in silenzio, per ore, giorni; la stessa che si toglierà quattro anni dai risvolti di copertina e si aggiungerà sei centimetri, per poi affermare, con falsa ironia, di essere alta solo sei palmi e qualche centimetro, sa bene dove vuole arrivare ed è perfettamente conscia dei propri mezzi. Giovanissima, nel 1890, scrive:
“Avrò fra poco vent’anni, a trenta voglio aver raggiunto il mio scopo radioso, qual è quello di creare da me sola una letteratura completamente ed esclusivamente sarda.”
Grazia attingeva alla quotidianità e regalava alle case e alle persone una sorta di immortalità non sempre desiderata, come nel caso della famiglia Nieddu di Galtellì, in Sardegna, ovvero le Pintor di “Canne al vento”. Il paese arrivò a odiarla per aver gettato il disonore su una famiglia tanto rispettabile. Il destino di Cervia fu inverso, il paese e i suoi abitanti, molti dei quali, come Trucolo (stagnaro stralunato protagonista di storie dal sapore rarefatto), si sentirono onorati di essere rappresentati nelle sue novelle, fino a riconoscerle la cittadinanza onoraria subito dopo il conferimento del Nobel.
Nelle sue quindici estati cervesi Grazia assiste alla metamorfosi di un villaggio di pescatori in stazione balneare. Gli spazi sono fragili, cambiano, come il primo stabilimento: un edificio mobile, che viene montato e poi smontato alla fine ogni estate. Siamo solo nel 1882. Molto più tardi, nei suoi soggiorni, invece, lei disporrà di un capanno sul mare tutto suo, alla cui ombra siederà ogni giorno, con una mano sulla borsa di paglia, i grandi capelli bianchi raccolti e gli occhi neri fermi a osservare i riflessi sull’acqua. Il capanno verrà costruito all’inizio della stagione e quando sarà il momento di tornare ci penserà il mare, con la prima mareggiata, a smontare gli assi.
Passate le prime estati di quiete, Grazia lamenterà delusa l’avvento del turismo, lo spazio selvaggio della sua Cervia verrà addomesticato da un’umanità mondana e rumorosa, radunata attorno al lussuoso Grand Hotel.
La prima casa, Villa Igea, la procura Lina Sacchetti, che diventerà una buona amica, è sul molo, diventa subito ambientazione letteraria, è la casa di Antonio, figlio presso il quale si trasferisce Giuseppe, maestro in pensione nel romanzo “Fuga in Egitto”:
“due grandi terrazze a colonnine si sporgevano sulla facciata della villa e sotto quella del primo piano un piccolo portico, col pavimento stuccato e le colonne rivestite di rose rampicanti, circondava il portoncino d’ingresso.”
In seguito si stabilisce sulla litoranea vicino a viale Dei Mille, per poi approdare definitivamente alla “Caravella”, su viale Cristoforo Colombo, una “piccola casa che ha le ali in mare”, acquistata, si dice, coi proventi del Nobel:
“una casetta color biscotto, con le persiane di menta glaciale verde, che pare sbocciata dalla sabbia per l’opera magica di una fata e per la mia esclusiva consolazione.”
Diventa quest’ultima il luogo letterario prediletto delle narrazioni ambientate a Cervia, di volta in volta è la casa del viaggio di nozze, il posto in cui ritrovare il figlio dopo aver abbandonato il paese natio, luogo dell’incontro segreto con un amante, una nuova casa per cambiare vita, un nuovo inizio.
All’epoca, attraversando il vialetto erboso, si vedeva il mare, ora c’è una fila di edifici di cemento tra la casetta, unica cosa rimasta immutata, e la litoranea, le vigne e le tamerici sono svanite e quella strada ora, così tanto diversa, per ironia della sorte si chiama lungomare Grazia Deledda.
Marino Moretti diceva che il lido di Cervia, con i suoi pini e con i suoi venti, faceva salmastre le ultime storie di Grazia Deledda, Lina Sacchetti sosteneva che la produzione cervese della scrittrice toccasse l’animo dei personaggi, spogliandoli del superfluo.
Concordo con Lina, per quanto possa contare il mio parere. “Il segreto dell’uomo solitario”, “La vigna sul mare” e gli altri racconti e romanzi cervesi già citati, rappresentano una svolta nella produzione della scrittrice, che esce dal regionalismo sardo, si stacca definitivamente dai feuilleton, per iniziare a praticare una narrativa intimista, dove resta centrale il paesaggio, ma le storie sono scarnificate, ridotte a suggestioni; dove i silenzi, i conflitti interni e i ritratti di personaggi, hanno la meglio sulle trame. Immutabile, invece, è il rapporto tra il vento e il destino umano, ma in Romagna, questo vento, si guadagna un nome: il garbino.
E adesso immaginiamo Grazia uscire dal suo studio, sullo sfondo s’intravede uno scrittoio in stile liberty e un divano austero dall’aspetto scomodo. I suoi piccoli sandali misura trentadue attraversano il salotto con le poltroncine in vimini, indossa un completo a pantaloni e sale sulla macchina di Isotta Gervasi alla volta di Cesenatico. Vanno a trovare l’amico Marino (Moretti) col quale nel 1913 era iniziato un fitto epistolario, interrotto da lei sin dai primi anni di villeggiatura in Romagna, perché oramai era venuto il tempo delle piccole confidenze orali. Panzini arriva in bicicletta da Bellaria con un seguito di fanciulle ridenti, li raggiunge Antonio Beltramelli, dinamico, ricco, mondano, viene dalle parti di Forlì, Antonio Baldini, arriva da Santarcangelo. Si radunano nel giardinetto oppure nelle “stanze leggiadre di mobili antichi e quadri moderni”, “le discussioni d’arte appanneranno i vetri”. Filippo De Pisis è lì ad attenderli, i quadri che dialogano con l’arredo del ‘600 sono i suoi. Graziedda non accenna mai a quello che sta scrivendo, non parla dei suoi progetti letterari, preferisce delle Janas, fate del folklore sardo, dei suoi primordi d’artista. Ribadisce scherzosamente la sua ignoranza, si è fermata alla quarta elementare, seppur ripetuta due volte, è madrelingua sarda, l’italiano l’ha imparato da sé. Discute con l’accademico Panzini, sono in disaccordo su Ungaretti che lei, divertita, dice di apprezzare. Il letterato, furibondo, dissente. Eppure sono tutti concordi nel ritenere lei, l’ignorante sarda, una scrittrice di razza, una mano felice. Diversi erano i giudizi lapidari, Pirandello e dell’Aleramo che la definiranno: una scrittrice per lettori di bocca buona.
Così, tra simposi di letterati, passeggiate solitarie, scrittura nel pomeriggio, lettere al figlio Sardus, passano le estati cervesi. E Palmiro, il funzionario governativo, amante della musica e dei ricevimenti, che posto avrà avuto?
Resta il tarlo legato alla parodia operata da Pirandello nel romanzo “Suo marito” che ritrae Giustino Boggiolo, marito della famosa Silvia Roncella, autrice del best seller La casa dei nani, come un arrampicatore sociale, interessato unicamente ad amministrare le fortune letterarie della moglie, inopportuno in società, ottuso, vanitoso. Eppure c’è lui a Roma accanto alla moglie Grazia nell’agosto del ‘36, gli altri sono tutti a Cervia, lei non vuole che si rovinino le vacanze, mentre muore.