La narrativa di Jenny Erpenbeck

È principalmente lo stile, nell’opera di Erpenbeck, che sorprende e spiazza, consapevole della lezione di Virginia Woolf, gioca tutto sull’attimo, sul momento, sulle piccole cose che accadono, si succedono, le contingenze accavallate ai pensieri, i momenti che si inseguono. Nel romanzo “Kairos”, l’attimo, c’è un rincorrersi di attimi precisi fatti di gesti comuni e perfetti, capaci di rivelare un mondo frammentato e impossibile da capire nel suo complesso, come la storia, imprendibile quando la si vive, altro tema di questo romanzo e della narrativa di Erpenbeck.
“Kairos” inizia con la morte di un uomo (che presto si scopre essere il protagonista maschile del romanzo) e termina col crollo della DDR, nel mezzo c’è la storia d’amore e di sottomissione tra Katarina, da poco maggiorenne, e Hans attempato scrittore di trent’anni più vecchio. Kairos è il momento opportuno, quello dell’amore, quello che fa incontrare i due protagonisti, che scivolano fin da subito in una relazione che dapprima assume i toni della storia romantica, inquadrata in un crescendo di passione, ma poi sfuma nell’ossessione, fino degradare nella violenza.
Hans ha un passato da camicia nera e un presente da intellettuale socialista inserito nell’apparato della DDR, i dialoghi riguardano spesso la storia del paese e il vissuto della generazione di lui, Katarina risponde con acume e intelligenza critica, ma la stima iniziale diventa prevaricazione, prepotenza, sottomissione, infine.
La storia dei due amanti procede al passo della storia di un paese ormai al declino. La DDR, la sua architettura, lo stile di vita, i divieti, la rigidità delle regole, è un’impalcatura che sembra tenere assieme, poi tutto deflagra, così come questa storia che inizialmente prende le forme di una passione totalizzante in cui entrambi si ritrovano e si riconoscono, ma presto si passa alle recriminazioni, alle violenze e una certa forma di sadomasochismo tra i due deflagra man mano che ci si avvicina alla caduta del muro.
La trasgressione è uno dei temi, i due protagonisti sopravvivono in un contesto fatto di divieti e controlli, consumando la loro relazione clandestina, ma vivendola nei tratti come una relazione tradizionale, senza sovvertire i ruoli in cui lui, sposato, pretende fedeltà e scatta di gelosia per l’unico e sporadico tradimento di lei. Lei che cede e soccombe, assapora una breve fuga all’ovest come una boccata d’aria, ma quel che capita dopo, il crollo e il nuovo assetto, non assomiglia alla libertà immaginata e questo vale pure per la relazione, che si fa sempre più cupa e asfissiante. I loro incontri sono intervallati da un ossessivo scambio epistolare e di audiocassette, che diventa serrato e allucinatorio, come se il moltiplicare le fonti di comunicazione tra i due diventasse una forma di presa di potere di uno sull’altro. Lo scambio di voci fa sentire Katarina, da un lato, assediata, dall’altro morbosamente ossessionata dal sapere dallo sviscerare, dall’andare nei meandri reconditi della narrazione di una relazione e nella sua riscrittura; perciò altro tema è la scrittura, perché questo è un romanzo che parla di storia, di trasgressione, di quanto c’è di malato nelle relazioni ma soprattutto di scrittura, quasi come se fosse un metaromanzo.

Nel romanzo “Storia della bambina che volle fermare il tempo” assistiamo a una favola nera che parla di identità, di stare nel corpo e nel mondo, del dolore del tempo, della libertà e dei vincoli dell’essere, ma è anche una favola politica per quel riferimento a Puntila di Brecht (continuamente richiamato nell’opera dell’autrice).
Nuovamente la storia della Germania trapela, il prima: l’orrore, il dopo: l’oblio necessario per sopportare le cose. La bambina ha perso la memoria, viene trovata con un secchiello e portata in orfanatrofio, là diventa una presenza dapprima sgradita, dileggiata, offesa, ma anche sfruttata, poi talvolta accettata o per lo meno integrata. La bambina non fa nulla, in ogni caso, nulla per imparare, nulla per integrarsi, nulla per crescere, sono gli altri a far tutto, lei resta una presenza inquietante e mostruosa, il suo corpo lo è già, grande, più grande di tutti, ha le sembianze di una bambinona che nessuno potrà mai amare, cosa che sembra ovvia. Lei resta ferma, non partecipa, non dice nulla e sembra voler attirare solo umiliazioni. Quando arriva la malattia sembra in lei affacciarsi una forma di vita. Infatti, dopo varie malattie, l’ultima la porta in ospedale, dove, dopo una dieta, assume le sembianze di una donna di trent’anni, da quel momento inizia a piangere e si sente smascherata. Poco dopo viene a farle visita una signora che dice di essere sua madre. ma che lei non riconosce.
La favola racconta del desiderio di restare bambini, senza alcuna responsabilità, lontano dagli affanni e lo fa usando un tempo giocato su piccoli fatti che si susseguono, un tempo che corre verso il precipizio. Lo stile preciso, raffinato, un flusso che è un insieme di tempi, di attimi, è quello di “Kairos”.
Anche qui abbiamo uno sviluppo articolato su piccoli accadimenti, epifanie, dettagli che accumulano una coscienza che è sempre piuttosto incosciente e legata a movimenti minimi: nessuna sintesi. Si resta sull’infinitamente piccolo, piccoli oscillamenti su uno sfondo ampio, una prosa che però ha molto di politico, che parla di un modo di stare al mondo privo di responsabilità, l’incapacità di osservare le cose non nel loro insieme. Ma responsabilità della storia, le colpe da che parte stanno?
La bambina ricorda la Germania nazista che evita qualsiasi presa di consapevolezza, che resta ferma e si fa coinvolgere nell’orrore, che non collega gli eventi, li esegue senza interrogarsi, la Germania efficiente che corre inesorabilmente verso la soluzione finale.

Di Muriel

Nata a Imola, dove forse (spero il più tardi possibile) morirò. Ho una laurea in storia dell'arte ma lavoro nel settore della formazione. Mi piace scrivere e leggere. Ho pubblicato La discarica degli acrobati sbadati (Giraldi 2011), Veduta di pianura con dame (Edizioni La meridiana 2015), Fermata al tramonto con cimitero (Augh! 2017); ho partecipato al romanzo collettivo Il libro delle vergini imprudenti (Navarra 2014); alcuni miei racconti sono apparsi in antologie e riviste, ho scritto due testi per il teatro. Ho un interesse speciale per le autrici e le loro personagge. Di recente ho scoperto di essere sia bibliomane sia bibliofila, abbinata che mi inserisce nel novero delle accumulatrici disordinate di libri e letture. Certe volte m’incuriosisce talmente tanto un’autrice che tendo a immedesimarmi nella sua storia tanto da volerla raccontare. Sarebbe difficile vivere senza le cose belle e inutili che (per me) sono: la letteratura, il cinema, il teatro e le arti visive. Con questo sito vorrei mettere ordine.